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Stage, apprendistato e duale: i ritardi italiani sugli orientamenti europei

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Capitale umano - Il rapporto Cedefop-Etf fotografa 500 buone pratiche in Europa: centri Vet in Danimarca, mestieri del futuro in Francia, in Spagna tirocinio in aumento. Da noi la Generazione Z paga il prezzo della frammentazione.

Negli ultimi anni, la formazione professionale è tornata al centro delle politiche europee, vista sempre più come una leva strategica per la competitività e la coesione sociale. Alla capacità di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro e al fabbisogno professionale delle imprese però si aggiunge ora una visione diversa, più integrata e che vede questo strumento come una leva fondamentale per governare le grandi transizioni in atto: quella digitale, quella ecologica e quella demografica.

Visto che la formazione professionale non fa parte delle competenze dirette dell’Ue, questa spinta si è in parte riflessa in un forte attivismo da parte degli Stati Membri. Un recente Policy Brief congiunto di Cedefop ed Etf (le due agenzie che si occupano di questo tema a livello europeo) e pubblicato a maggio 2025, offre una fotografia delle azioni intraprese proprio dagli Stati Membri, mappando circa 500 misure nazionali intraprese dal 2021 a oggi per modernizzare i sistemi «Vet» (Vocational Education and Training, cioè Istruzione e Formazione professionale), rendendoli più agili, flessibili e inclusivi. 

Distanza tra ambizioni e pratica

Gli interventi seguono in larga parte tre direttrici principali: rafforzare i legami tra enti formativi e imprese, promuovere lo sviluppo di competenze green e digitali e migliorare l’integrazione europea in termini di riconoscimento delle competenze e mobilità degli studenti. I progressi sono stati significativi, ma il rapporto invita a una lettura critica: le ambizioni politiche spesso non trovano piena realizzazione nella pratica. Restano divari tra inclusione e logiche di mercato, tra finalità educative e bisogni occupazionali. Sull’aggiornamento dei curricula e degli standard professionali, molti Paesi hanno intrapreso percorsi di riforma, integrando in modo trasversale le competenze digitali e ambientali. 

Il confronto con altri Paesi

Spiccano la Danimarca, dove sono stati istituiti centri «Vet» dedicati specificamente alla sostenibilità e all’innovazione, e la Francia, che ha avviato programmi disegnati per promuovere i mestieri del futuro. In altri contesti, però, le iniziative sono state spesso guidate dalla disponibilità di fondi europei, senza una visione strutturale di lungo periodo. 

Interazione tra scuole e imprese

Il rapporto analizza anche il tentativo di avvicinare formazione e mercato del lavoro. In Spagna, ad esempio, le esperienze di tirocinio sono aumentate per colmare il divario tra studio e impresa, ma la recente estensione dell’obbligo contributivo per gli studenti in stage ha riacceso il dibattito: i tirocini sono ancora esperienze formative o stanno diventando una forma di lavoro? Una questione su cui si esprimerà presto anche una direttiva europea. Il tema dell’interazione tra scuole e imprese resta però uno dei punti più critici.

Le esperienze di apprendimento basato sul lavoro e le collaborazioni pubblico-private dovrebbero migliorare l’allineamento tra formazione e domanda occupazionale, ma in molti Paesi, Italia compresa, la partecipazione delle imprese resta debole (a livello europeo solo il 60% degli studenti iscritti a programmi Vet li svolge in modalità duale, in leggero calo). Le piccole e medie imprese faticano a sostenere i costi e le responsabilità della formazione interna, spesso per mancanza di tutor adeguatamente preparati o di una reale cultura dell’apprendimento continuo.

Anche quando sono disponibili incentivi e strumenti di co-progettazione, l’impatto risulta  locale, limitato a un territorio e magari alle eccellenze che lo caratterizzano in termini produttivi e industriali ma poco strutturale. 

L’attrattività della formazione

Un altro tema centrale è poi l’attrattività della formazione professionale, che deve essere percepita come una scelta di valore, non come un ripiego. L’ultimo report dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, segnala alcuni passi avanti svolti dal nostro Paese sotto questo punto di vista, ma ancora molto rimane da fare. Uno dei motivi per cui la formazione professionale viene spesso percepita come meno attrattiva rispetto a quella accademica è la convinzione, spesso infondata, che prepari a lavori di livello inferiore. In questo senso, stanno emergendo esperienze interessanti volte a migliorare la qualità del corpo docente, attraverso la formazione dei formatori già attivi e il coinvolgimento di professionisti provenienti dal mondo del lavoro.

Una formazione professionale più attrattiva quindi, ma anche più inclusiva, con attenzione a gruppi storicamente esclusi: adulti con basso livello di istruzione, migranti, rifugiati, giovani che hanno lasciato precocemente la scuola, persone con disabilità e donne, ancora oggi sottorappresentate nei settori tecnologici. Secondo il report, solo il 15,5% degli studenti Vet in area Stem sono donne o giovani donne. Restano però forti disuguaglianze sia nell’accesso effettivo alla formazione sia nel riconoscimento delle competenze acquisite in contesti informali o non formali.

Percorsi a piccoli passi

Nel panorama europeo, si sta affermando con forza anche il tema delle microcredenziali, pensate per offrire percorsi di apprendimento più modulari e flessibili, in linea con le esigenze del lifelong learning. Tuttavia, queste soluzioni pongono ancora sfide importanti: la frammentazione delle offerte formative e la difficoltà di farle riconoscere dai datori di lavoro rischiano di minarne l’efficacia. Per rendere l’apprendimento permanente realmente efficace servono non solo corsi accessibili, ma anche sistemi di validazione delle competenze chiari, interoperabili, accompagnati da servizi di orientamento solidi e da finanziamenti continui.

Una centralità strategica

Il sistema europeo della formazione professionale si trova quindi davanti a un bivio. Da una parte, la sua centralità strategica è ormai riconosciuta. Un sistema capace di integrare scuola e lavoro, che sviluppi le competenze richieste dal mercato e che promuova inclusione e innovazione è oggi indispensabile.

Dall’altra parte, però, restano aperte domande cruciali: come garantire la sostenibilità dei progetti avviati quando i fondi straordinari verranno meno? Come evitare che la formazione professionale sia percepita come la scelta di chi non ha accesso all’università? E come garantire equità in contesti dove l’autonomia locale genera offerte disomogenee?

Il rischio dietro l’angolo è sempre quello di ridurre la formazione professionale a un mero strumento di adattamento al mercato, dimenticandone la dimensione educativa e sociale che invece merita di essere valorizzato. La vera sfida, quindi, è costruire un sistema di formazione   capace di valorizzare il potenziale umano in tutte le sue sfaccettature. Per questo servono investimenti di lungo periodo, alleanze solide tra attori pubblici e privati, e un rafforzamento concreto della professionalità dei docenti e dei formatori. Al centro non può esserci solo la prestazione, ma la persona.

Le «Microcredenziali» - Dall’Irlanda la rivoluzione della formazione breve

Qualche anno fa il Consiglio Ue ha adottato una Raccomandazione sulle microcredenziali per apprendimento permanente e occupabilità. Viene introdotta una definizione comune: le microcredenziali sono certificazioni dei risultati di un breve percorso di apprendimento (esempio: un breve corso di formazione), che offrono un modo flessibile e mirato per sviluppare competenze specifiche. La Raccomandazione mira a facilitare sviluppo, attuazione e riconoscimento delle microcredenziali a tutti i livelli – tra istituzioni, imprese, settori e oltre i confini nazionali. L’Irlanda è stata uno dei primi Paesi europei a sviluppare un quadro nazionale organico per le microcredenziali.

Il progetto MicroCreds (2020-2025), finanziato con 12,3 milioni di euro, è guidato dall’Associazione delle Università Irlandesi in partnership con sette atenei. Questo consorzio ha collaborato per sviluppare e testare microcorsi brevi qualificati e accreditati, con l’ambizione di creare un modello stabile per il lifelong learning basato su microcredenziali. Si punta a rimuovere gli ostacoli che frenano la formazione continua degli adulti – ad esempio la mancanza di tempo o l’inflessibilità dei percorsi tradizionali – offrendo unità di apprendimento di piccola durata, fruibili in maniera modulare e compatibile con il lavoro.

L’Irlanda rivendica di essere «il primo Paese europeo ad aver istituito un quadro nazionale coerente di microcredenziali di qualità assicurata», e vede in queste un modo per ridefinire il rapporto tra università, imprese e cittadini nell’ottica della formazione permanente. Attraverso la piattaforma MicroCreds, sono già disponibili cataloghi di microcorsi universitari pensati per esigenze di settori chiave (es. transizione digitale, zero carbon, PMI) sviluppati in collaborazione con aziende e agenzie nazionali per le competenze.