Capitale umano Fellegara (Università Cattolica): «Per i giovani il lavoro è parte della qualità della vita, ma la promessa di crescita, equità e sostenibilità va mantenuta, altrimenti sognano di andarsene all’estero».
«Se il vero vantaggio competitivo di un’azienda sono le risorse umane, allora valorizzarle diventa imprescindibile». A dirlo è Anna Maria Fellegara, docente e prorettrice vicaria dell’Università Cattolica, dove dirige anche il centro di ricerca RES.m HUB sulla sostenibilità. Fellegara siede inoltre nel comitato direttivo di Remlab – il centro dedicato a Retailing e Trade Marketing – ed è membro di numerosi organi di governance, dal CdA di Crédit Agricole al Collegio sindacale di Brunello Cucinelli, fino alla presidenza dell’Organismo di vigilanza del Museo della Scienza e della Tecnologia «Leonardo Da Vinci» di Milano.
Oggi, con l’arrivo della Generazione Z nel mondo del lavoro, i paradigmi aziendali stanno cambiando rapidamente. La classifica di Great Place to Work Italia, che elenca le venti migliori aziende per i giovani (vedi box), aiuta a capire cosa davvero conta per chi è nato tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000. Ne abbiamo parlato con la professoressa Fellegara per capire come le imprese possono rispondere alle nuove aspettative.
I giovani hanno una nuova visione del mondo del lavoro. Come dev’essere l’azienda adatta alla Gen Z?
«L’attività lavorativa è vista dai giovani come caratterizzante la qualità della vita, è centrale per il benessere e per la felicità. Sono importanti il clima, l’ambiente, le relazioni. Come università, osserviamo un forte desiderio di mettersi in gioco, il che porta ad accettare inizialmente condizioni di ingaggio non pienamente sufficienti - una retribuzione non adeguata e prospettive incerte - viste però come un investimento sul proprio futuro, laddove però ci sia una ricchezza esperienziale per cui valga spendersi. I nostri giovani sono educati alla qualità, al bello nel senso rotondo del termine. È importante che il luogo di lavoro sia accogliente e stimolante».
Dal ranking di Great place to work emerge l’importanza di inclusione, imparzialità, coerenza e supporto. È cambiata l’ottica da quando carriera e stipendio erano prioritari?
«I giovani che entrano ora nel mondo del lavoro, si mettono in gioco. Livello retributivo e carriera non sono i primi obiettivi, ma nel tempo crescono in rilevanza. Prima si guarda a clima, relazioni, collaborazioni, valori condivisi. Si apre poi una fase tesa a verificare la promessa, insita nella proposta lavorativa, che il posto portava con sè, si realizza. Se la qualità è rispondente alle aspettative, i sacrifici si possono fare. Altrimenti c’è il sogno e il coraggio di cambiare , anche guardando sempre di più all’estero».
Emigra anche chi ha un lavoro...
«Non fa onore al nostra sistema pagare così poco i giovani, non valorizzarli, non dare loro riconoscimenti adeguati. C’è un problema enorme di inequità del trattamento retributivo. La Generazione Z è disposta al sacrificio, ma la promessa va mantenuta e in fretta».
È apprezzato un management equo e coerente, che mantenga quella promessa. Oltre a questo, come dev’essere il manager di oggi?
«Deve saper far crescere i giovani. Il contesto è di qualità quando il manager ti accompagna e ti aiuta a rileggere il tuo operato, quando avverti che considera gli errori e premia i miglioramenti, quando si ha la prova che il tuo percorso è seguito. Un giovane non deve sentirsi abbandonato. Se è vero che, nella valutazione dell’offerta di lavoro danno importanza allo smartworking, è anche indiscutibile che percepiscono il valore della comunità dei pari, fatta di persone che vivono all’interno dell’azienda e crescono anche in abilità sociali. La flessibilità si collega al benessere organizzativo, ma da un rapporto gestito solo in remoto non ci guadagna nessuno».
In merito a questo, il 40% delle venti aziende opera nell’It. Può collegarsi a una maggiore facilità a ottenere lo smartworking?
«Non so, siamo nel campo delle ipotesi. Il settore It è certamente ad alto potenziale, offre flessibilità, ma è anche un lavoro meno esecutivo e con una buona dose di creatività. È “artigianale”. La flessibilità è un elemento che rende attrattivo il settore It, ma in quel settore le modalità di lavoro si completano anche con enfasi sul team, sull’inclusività e sull’informalità. È un settore in cui le aspettative tendono ad essere corrisposte e la promessa iniziale realizzata. È un settore di frontiera, dove conta in modo particolare un investimento continuo sui saperi».
Che ruolo può avere una formazione affiancata alle università?
«La formazione non può limitarsi alla prima fase della vita che, sia biologicamente che lavorativamente, tende ad essere molto più lunga che in passato. Ci vuole un patto formativo tra le academy delle imprese e delle università. Dobbiamo imparare a formare formatori. Una collaborazione, anche agevolata dall’Ia e dai progressi della tecnologia in genere, può contribuire a una distribuzione nel tempo dell’aggiornamento e della formazione, che consenta di mantenere sempre giovani, in termini di interesse, passione, saper fare, le risorse che si ingaggiano. È una risposta all’inverno demografico. investiamo poco in ricerca e sviluppo, in particolare nelle persone. Dobbiamo creare piani formativi di orizzonte lungo per non lasciar disperdere le conoscenze, per aggiornare le abilità e i saperi, per trattenere le persone. Non potremo permetterci di esodare generazioni di persone».
Le aziende del ranking sviluppano una cultura aziendale che trasmette valori condivisi dai giovani per aumentare la retention. È efficace?
«Credo che i giovani siano sempre più interessati a vedere realizzati, attraverso il loro lavoro, obiettivi e valori a cui sono legati. Giustizia, equità, sostenibilità sono una forte motivazione, non contrapposta o disgiunta dal puntare a un lavoro remunerativo e di soddisfazione. C’è il senso di appartenenza, l’orgoglio di far parte di un’azienda di cui si condividano i valori. Abbiamo visto una fuga dall’interesse dei giovani dai settori in cui viene dato scarso valore al lavoro umano. Le aziende di successo sono quelle che riescono a raccontare i valori in cui credono, a far capire, attraverso le persone che li interpretano, che sono valori credibili. Politiche di retention credibili ed efficaci possono prescindere dalla coerenza e dalla condivisione dei valori dichiarati dei documenti aziendali (dal codice etico, alla mission, dal piano strategico alle premialità».
Le aziende oggi lontane dai giovani come possono colmare il gap?
«Bisogna essere pragmatici. Molto dipende dal margine che l’attività economica offre. Se si può investire, si possono magari ideare modelli di compartecipazione dei dipendenti, come l’esternalizzazione, dando delle responsabilità a un lavoro esterno che trasformi un dipendente deluso in un piccolo imprenditore. Ma non è possibile in ogni settore. In generale, le leve sono: retribuzione, formazione, percorsi di crescita, benessere organizzativo, meno gerarchia e più spazio a creatività e flessibilità. Se la risorsa umana fa la differenza tra un’azienda di successo e una di insuccesso, bisogna puntare a valorizzarla. Si possono apportare anche cambiamenti di processo o metodo, sono innovazioni che portano motivazione, sollecitano la partecipazione all’ingaggio. Elementi che danno motivazione. Al mattino sei contento di andare a lavorare».