In un anno sono state 38 le aziende iscritte a Confindustria che hanno scelto di aderire al progetto Delta Index per misurare la distanza con le nuove generazioni di lavoratori, la cosiddetta Generazione Z. Dei quattro punti cardine analizzati (attrarre, selezionare, formare, trattenere) il più dolente è la formazione.
Un’analisi che il vicepresidente di Confindustria, Marco Manzoni, ha definito «fondamentale per capire meglio le difficoltà delle aziende associate e accompagnarle in un percorso misurato con un rating, come quello del Delta Index, che serve a migliorare e verificare nel tempo la riduzione del gap».
Delle 38 aziende che avete sottoposto allo screening del Delta Index quante hanno mostrato la necessità di attivare un percorso di miglioramento?
«Considerando la scala del Delta Index da 0 a 100, è emerso un valore medio di 63 punti. C’è quindi margine di miglioramento, dipende sempre da come si guarda il bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto. Di certo il punteggio più basso (sotto 60) è stato registrato in metà delle aziende sul tema della formazione».
Si tratta di carenza in entrata, quindi d’origine scolastica, oppure nelle aziende post assunzione?
«Un po’ tutti e due, anche se il punto più critico è sicuramente la formazione continua sul lavoro. Anche perché sull’orientamento e sulla scuola molte delle nostre aziende sono parte attiva e il rapporto con gli istituti è abbastanza presidiato».
Dove fanno la differenza le aziende più preparate sull’«onboarding»?
«Notiamo che le imprese più attrattive hanno un processo di crescita e sviluppo dei giovani strutturato: hanno sistemi di misurazione delle competenze e performances con processi formativi collegati ai percorsi di crescita, politiche retributive coerenti e sistemi di welfare diversificati e flessibili. L’attrattività delle organizzazioni verso i giovani richiede un’attenzione particolare al ruolo dei capi.
Le aziende eccellenti vedono nel capo non solo un riferimento di tipo professionale, ma un vero e proprio mentor. Ne deriva che il capo deve possedere non più solo competenze tecniche o anche gestionali, ma soprattutto di sviluppo professionale, concentrandosi sul giovane al di là del suo ruolo professionale».
Quanto è compresa la necessità della formazione come piano di sviluppo aziendale?
«Non ancora appieno, si teme di investire a perdere perché poi magari il ragazzo cambia azienda. Invece è proprio per questo che la formazione, oltre nel senso classico di accompagnamento e di acquisizione di competenze, va intesa anche come condivisione di un percorso di carriera con obiettivi non solo economici.
Se il giovane si sente formato adeguatamente rispetto all’organizzazione aziendale, percepisce questo percorso come una forma di welfare, cioè uno sviluppo della professione in equilibrio con la propria vita privata».
Con questa attenzione allo sviluppo tramite la formazione la retention aumenta, ma quanto tempo serve?
«Su questo il percorso del Delta Index non lascia dubbi: non è un progetto usa e getta da “tutto subito”. È un cammino sulla lunga distanza. Oggi il tutto e subito non è più possibile, ma le aziende lo sanno. Questo concetto del tempo investito nella retention sta entrando nella mentalità degli imprenditori. È un’attenzione che diventa pianificazione, perché si improvvisa gran poco e aiuta le aziende - anche in settori meno attrattivi- a trovare soluzioni più strutturate nel tempo. La logica del tempo è la chiave di lettura per fare in modo che tutte e quattro le fasi del Delta Index vengano bilanciate per rendere l’investimento più efficace possibile».
Quale tipo di aziende hanno accettato di farsi misurare sul Delta Index?
«Sono aziende di dimensione media. Le big sono già strutturate. Il Delta Index funziona molto bene sulle realtà medie. E i settori sono i più vari. In alcuni casi sono aziende eccellenti ma che scontano un’immagine di settore che è un po’ meno innovativa. Quindi c’è da lavorare molto sulla conoscenza e sulla cultura d’impresa».