Chi è Francesco Delzio - Lo stratega del mondo del lavoro
Francesco Delzio, professore all’Università Luiss Guido Carli - dove è direttore del Master in «Relazioni Istituzionali, Lobby e Human Capital» - e la Scuola nazionale dell’Amministrazione, è Founder e Ceo di Digital Horizon, società specializzata nella creazione di «pensiero» e di strategie innovative nelle aree del public affairs, della comunicazione e del marketing. È consigliere nel Cda di Sviluppo Lavoro Italia. È editorialista di Avvenire, RTL 102.5, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino e Prima Comunicazione. Per Rubbettino Editore ha pubblicato numerosi saggi: l’ultimo è «L’Era del lavoro libero».
Capitale umano Delzio (Università Luiss): le aziende non restino ancorate al modello «command e control». La Gen Z ha portato una rivoluzione nel mondo del lavoro. «Non è la versione low cost dei senior in uscita»
Il mondo del lavoro sta vivendo una doppia rivoluzione: da un lato, l’impatto dell’intelligenza artificiale, che cambierà profondamente i modelli organizzativi; dall’altro, il cambio di paradigma portato dalla Generazione Z, che sta riscrivendo le regole del gioco. Francesco Delzio, esperto di strategie d’impresa e autore del libro «L’era del lavoro libero», ci aiuta a comprendere meglio questa trasformazione e le sue implicazioni per le aziende. In particolare, come le imprese debbano svincolarsi da strutture piuttosto incrostate e verticistiche per affidarsi maggiormente alle idee innovative della Generazione Z.
Nel suo libro parla di una rivoluzione nel mondo del lavoro. In che modo la Generazione Z sta accelerando questa trasformazione?
«Le due rivoluzioni in corso oggi nel mondo del lavoro sono inedite per intensità e simultaneità. Una è quella legata all’intelligenza artificiale generativa, che non ha ancora raggiunto il suo picco di diffusione, ma che diventerà accessibile a tutte le imprese entro i prossimi due anni. L’altra, meno compresa, è quella portata avanti dalla Generazione Z. I giovani di oggi cercano nel lavoro non solo uno stipendio o una carriera, ma un senso in quello che fanno. Questa ricerca di significato ha effetti concreti sulle organizzazioni: chiedono flessibilità, autonomia e un coinvolgimento reale nei processi aziendali fin dal primo giorno. Non vogliono essere numeri, ma protagonisti».
Le aziende faticano a rispondere a queste nuove esigenze?
«Sì, perché la maggior parte delle imprese si basa ancora su modelli organizzativi tradizionali, rigidi e gerarchici. Il problema più grande che riscontro oggi nei processi di selezione è l’incomunicabilità tra datori di lavoro e giovani candidati. Parlano due linguaggi diversi, hanno visioni del mondo radicalmente opposte. I giovani chiedono autonomia nella gestione del lavoro, valutazioni basate sui risultati e una cultura aziendale fondata sulla collaborazione, mentre molte aziende restano ancorate al classico modello “command and control”. Un altro grande tema è la trasparenza: la Generazione Z non accetta promesse vaghe o percorsi professionali indefiniti. Vogliono sapere esattamente come si evolverà la loro carriera e quali sono le prospettive reali di crescita».
Lei è un sostenitore della partecipazione dei lavoratori nei processi aziendali. Ma ce li vede gli under 27 a decidere il futuro di un’azienda?
«Assolutamente sì, ma serve un modello di partecipazione su misura per l’Italia. Non dobbiamo pensare soltanto alla presenza di giovani nei board aziendali, come accade in Germania, ma a strumenti più flessibili, come commissioni paritetiche su temi innovativi tra top management e nuove generazioni. Un esempio? La gestione dell’intelligenza artificiale: non possiamo affrontarla con modelli organizzativi vecchi. Altri strumenti potrebbero essere la partecipazione economico-finanziaria, come l’azionariato diffuso, o meccanismi di mentoring avanzati. Alcune aziende più lungimiranti stanno già sperimentando queste soluzioni, ma siamo ancora lontani da una diffusione sistematica».
In un mondo del lavoro molto competitivo dove il tempo trascorso in azienda ha ancora un peso, la Gen Z sta dicendo esattamente il contrario: meno tempo al lavoro ma più produttivo per dare anche spazio alla vita personale. Come possono le aziende adattarsi?
«Oggi le imprese hanno troppi livelli gerarchici, il che porta a una perdita di produttività e di coinvolgimento dei giovani. Senza stravolgere l’organizzazione, si possono introdurre modelli di mentoring, affiancamento su progetti specifici e strumenti di tutoraggio. Queste soluzioni permettono ai giovani di esprimere il proprio potenziale e alle aziende di testare il loro talento senza scardinare le gerarchie tradizionali. Ciò che manca spesso è il coraggio di sperimentare. Un altro aspetto fondamentale è la cultura della fiducia: i giovani vogliono essere valutati sui risultati, non sul numero di ore passate in ufficio. Le imprese che sapranno adattarsi a questo mindset avranno un vantaggio competitivo enorme».
E sullo smart working? Le aziende sembrano fare passi indietro...
«Lo smart working è una richiesta chiave della Generazione Z e ha già dimostrato la sua efficacia in termini di produttività e benessere. Il problema non è se mantenerlo o meno, ma come gestire il passaggio delle competenze. Molte aziende stanno tornando indietro per paura che il lavoro a distanza ostacoli l’apprendimento informale tra generazioni. Ma invece di abolirlo, servirebbero soluzioni innovative: sessioni dedicate, incontri periodici in presenza, strumenti digitali per la collaborazione. Invece, assistiamo a una “pigrizia manageriale” che spinge molte imprese a eliminare del tutto lo smart working invece di riorganizzarlo in modo efficace. La questione vera è che molte aziende non hanno ancora compreso che la flessibilità lavorativa è un asset, non un problema».
Ci sono barriere specifiche in Italia che rendono difficile l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro?
«La principale barriera è economica. I giovani italiani nei primi cinque-sette anni di carriera guadagnano meno rispetto ai loro coetanei europei. Secondo Eurostat, siamo al penultimo posto in Europa, davanti solo alla Romania. Questo non riguarda tanto le imprese manifatturiere, quanto il settore dei servizi e le professioni, dove spesso i giovani affrontano lunghi periodi di apprendistato con compensi molto bassi. Un altro problema è il mancato utilizzo dell’apprendistato e il ritardo nella formazione professionale, che solo recentemente ha ricevuto più attenzione. Inoltre, il mondo del lavoro italiano è ancora molto legato a criteri di seniority piuttosto che di merito, e questo scoraggia i giovani talenti dall’investire nel proprio percorso professionale in Italia».
Come possiamo migliorare il legame tra formazione e mondo del lavoro?
«Abbiamo già strumenti validi, come gli Its e le Academy aziendali, ma il problema è che restano iniziative isolate. Dovremmo espanderle all’intero ecosistema industriale, coinvolgendo filiere di imprese. Inoltre, c’è ancora un enorme gap culturale: gli Its sono percepiti come percorsi di serie C, e il mondo manifatturiero è visto con pregiudizio. Dobbiamo cambiare questa mentalità e far capire che questi percorsi offrono reali opportunità di carriera».
Molti giovani lasciano l’Italia per lavorare all’estero. Cosa manca alle nostre aziende per trattenerli?
«Oltre agli stipendi più bassi, c’è una questione di attrattività. Abbiamo un enorme patrimonio di brand Made in Italy, riconosciuti a livello globale, ma non siamo capaci di tradurre questa forza in opportunità concrete per i giovani. Le nostre imprese devono imparare a comunicare meglio il proprio valore e a offrire percorsi chiari di crescita. In più, c’è un problema di mentalità: molte aziende vedono i giovani solo come sostituti low-cost di lavoratori più anziani, invece di investirci con convinzione. La verità è che se vogliamo competere con i migliori talenti internazionali, dobbiamo offrire loro non solo stipendi competitivi, ma anche una prospettiva chiara di crescita e di valorizzazione delle loro competenze».
Guardando al futuro, che evoluzione prevede nel rapporto tra la Generazione Z e il mondo del lavoro?
«Sono ottimista. La Generazione Z ha valori che oggi sembrano distanti dal mondo aziendale, ma che a lungo termine potranno migliorare sia la competitività che la qualità della vita nelle imprese. La distanza tra i loro bisogni e l’attuale modello organizzativo è enorme, e la transizione sarà complessa. Ma le aziende che sapranno integrare queste nuove esigenze saranno anche quelle più innovative e di successo in futuro».